i privè dell’Italia dell’incomprensibile

Ne ho viste tante. Ne ho subite di più. Ma adesso mi trovo davanti ad un qualcosa di veramente diverso nell’impeto interiore che mi ha generato. Una ferita tanto più lacerante per l’inaspettata (o quasi) sua genesi inferta in modo subdolo da chi non avevi mai capito o letto a sufficienza e la tua diffidenza “inconscia” ancora una volta ci aveva preso. A consuntivo ora è tutto più chiaro, ovviamente, ma anche ieri le tinte sbiadite di una sfiducia latente potevano esser colte.

Certo è impossibile aver pretese di onestà intellettuale e lealtà nel disincanto del mondo odierno dominato dai social anziché dai libri, dalle forme contro culturali piuttosto che dall’orgoglio rigoglioso del sapere, dai sempre più asfittici no invece che dagli ossigenanti si. Risulta chiaro dunque che la nostalgia verso ere più disincantate prevalga, epoche andate di cui i nostri millennials forse non hanno mai neppure sentito parlare per via di quel gioco perverso che porta a falsificare la storia demistificando con sofisticati sofismi i temi centrali che vengono derubricati se non del tutto cancellati e conducono su traiettorie perimetrali che ben si guardano dall’esser attendibili ma altrettanto bene sanno confondere ed amalgamare nel qualunquismo ogni nefandezza.

Sono questi i copioni degli attori che ogni giorno si possono incontrare nei privè dell’Italia dell’incomprensibile: un sottobosco fittissimo che ha poco se non pochissimo a che fare con la natura delle cose ed è distante anni luce dall’eleganza dei modi e dei tempi a cui basterebbe forse per ravvivare la speranza solo qualche fiore di loto, un gesto semplice che mi permetta di dire ancora: <<io lotto!>>

Ed invece l’unica eterna lotta vede in scena, da secoli, menzogna e sincerità in un fantasmagorico teatro dell’assurdo dominato da un lato da muscoli con un buon tono e dall’altro dalle varie ed innumerevoli “fratture” della possibilità del fare dovute al troppo peso di quella presenza (assente nel suo essere) che doveva esser temporanea ma invece è divenuta orami costante e che si chiama vacuità.

Una vacuità a cui mio zio Gianni (a cui oggi, a 13 anni dalla sua dipartita, va il mio più grande abbraccio) avrebbe anteposto contenuti su contenuti come un novello Cristoforo Colombo che con le sue tre caravelle chiamate empatia, umiltà e generosità sapeva sempre trovare la giusta navigazione verso le soluzioni di cui abbisognavo…

Specie oggi che cerco al di la della numerologia di cui sopra (13 che chiama 13) e oltre il dover scomodare la santa odierna, una luce in grado di risolvere ed appianare ogni promontorio d’inefficienza ed ingiustizia.

Pertanto quovadis? So benissimo che la gloria mi abbia sempre chiamato con voce irresistibile anche quando lo sconforto mi stava ammaliando e la mia sensazione interiore palesava forti toni e sentimenti di sconfitta, pur tuttavia il mio solito esser molto più spesso imperturbabile ha dimenticato come fare di fronte alla realtà odierna, davanti ad una condizione comandata da una bugia che vola indisturbata nel mondo e con peggio ancora una verità che tarda a venire in quanto solitaria nella sua dimora mentre è alle prese col più che mai laborioso tentativo di allacciarsi le scarpe

Ed in questa partita a scacchi con la pazienza, un certo tipo di forma (oggi troppo sovente lasciata in soffitta) che è essa stessa contenuto potrebbe esser l’anabatica via per suturare ciò che è stato divelto, seppur di sicuro non basti. Serve un viaggio molto più intenso e consolidante che sappia farsi forza nel silenzio di mille pensieri anelanti che lungo terre inesplorate provino a raggiungere la più grande scoperta che è anche vera espressione di ricchezza: la voglia di sognare!

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